Patologie del cavo orale e correlazioni sistemiche: breve storia dell’odontoiatria funzionale

storia dell’odontoiatria funzionale

La correlazione tra patologie del cavo orale e malattie sistemiche è nota fin dall’antichità: resti archeologici documentano la guarigione da processi artritici dopo l’estrazione di denti compromessi in un faraone egizio (3000 a.C.) e del re assiro Annape (650 a.C.); Ippocrate stesso (460 – 375 a.C.) segnalò numerosissimi esempi in cui la patologia dentale aveva l’effetto d’innescare reazioni in altre parti del corpo: per esempio affermò che “un reumatismo che resisteva ai tentativi di guarigione poteva essere eliminato estraendo eventuali denti compromessi” (On Epidemics, Hb. ii, section i, p. 1002). Il più famoso medico di tutti i tempi aveva le idee chiare e infatti dichiarò che la maggior parte delle suppurazioni focali causate dai denti provenivano dalle infiammazioni create dai denti del giudizio. Ippocrate si rifaceva in realtà alla tradizione di Esculapio, che rimase in vigore tra il 1100 a.C. e il 400 d.C. (inizialmente veniva praticata solo dai sacerdoti dei templi esculaplei, per esempio quelli di Epidauro, Cos, Cnydus e Rodi, mentre in seguito fu ripresa anche da guaritori non sacerdoti). Un altro argomento affrontato da Ippocrate era il contributo infiammatorio notevole apportato dai periodi di dentizione difficile nei bambini che poteva far insorgere problemi in numerose diverse parti dell’organismo. Quest’idea, accennata già da Omero nell’Odissea, apparteneva anche ad Esculapio ed è stata descritta dalla letteratura di ogni epoca, dagli scritti in India del 1000 a.C. fino a Soranus di Efeso (117 d.C.) e ai medici del diciassettesimo secolo. Questa osservazione ricorrente su disturbi a distanza che vengono innescati da un’infiammazione nella bocca evidentemente venne accolta dal modus operandi olistico di Esculapio che spesso chiamava in causa lo squilibro della “forza vitale”, ad indicare, con un concetto molto moderno, che le patologie sono multifattoriali. Nello stabilire la diagnosi di una malattia, infatti, anche Ippocrate consigliava di cercare il suo punto di partenza. Per esempio se si trattava di mal di testa, di disturbi alle orecchie o agli occhi, o di un qualsiasi sintomo su un lato solo del corpo, insisteva che la causa poteva essere spesso rintracciata in qualche infiammazione nelle aree dei denti. La famosa massima ippocratica, “le malattie dovrebbero essere combattute alla loro origine”, esprime proprio questo modo di pensare (“A tutti quelli che non conoscono la causa della malattia, risulterà anche impossibile curarla”); Ippocrate aveva l’abitudine di cercare quale “spina irritativa” potesse essere la più rilevante nel caso specifico, la fonte degli “umori dannosi” che stavano invadendo l’organismo e creando il disturbo e la valutazione dello stato dei denti era un elemento onnipresente nella sua indagine. Tutti i medici ippocratici dell’antichità avevano questo punto di vista, come per esempio Erofilo e Erasistrato, illustri dottori della scuola medica di Alessandria (300 a.C.). Interessante anche notare che il famoso enciclopedista e ricercatore medico romano, Aulo Cornelio Celso (25 a.C. – 50 d.C.) non fece altro che tramandare la tradizione medica ippocratica. Apprendiamo da Celso che “i denti che causano il ritiro delle gengive sono morti e il terapeuta che non li prende in considerazione non riuscirà a far guarire i suoi pazienti”. Anche Areteo di Cappadocia (1° secolo d.C.) descrisse una considerevole infiammazione gengivale nel primo caso di tubercolosi mai consegnato alla storia nel (De causis et signis diuturnorum morborum).

Secondo quanto spiegava Ippocrate, Celso coniò anche la famosa frase: “rubor, tumor, calor, dolor, functio lesa” (ripresa da Galeno, che nel 200 d.C. scrisse tre libri di commentari su Ippocrate), che descrive nell’ordine: (rubor) foci infiammatori, (tumor) rigonfiamento, concentrazione e perimetrazione di un focus di metaboliti infiammatori, (calor) la reazione primaria del sistema immunitario, (functio lesa) una fase tardiva, cronica, caratterizzata dalla degenerazione del tessuto invaso a distanza quando il sistema immunitario è sfiancato e meno efficiente.

Questo modo di pensare sui denti lo ritroviamo anche in pieno medio evo, presso i guaritori naturali. La loro diagnosi partiva dalla bocca e la guarigione veniva coadiuvata da cambiamenti di alimentazione, impacchi e tisane con fitoterapici specifici per risvegliare la presenza dell’organismo nelle parti ammalate. Anche i professori delle prime università di medicina raccomandavano l’estrazione dei denti malati per la cura delle patologie degli occhi e delle orecchie e di altri organi distanti (Ambroise Pare, 1517-1590, Giovanni Andrea Della Croce, 1533-1603, e Pieter van Foreest 1522-1597). Questi autori erano finanche a conoscenza del fatto che numerosi malanni potevano essere fatti risalire a qualche frammento di radice rimasto nell’osso mandibolare nel corso di precedenti estrazioni dentali. Anche il celebre chirurgo francese Antoine Petit aveva pubblicato nel 1750 alcuni casi di guarigione di tubercolosi di lunga data ottenuta in seguito all’estrazione di denti malandati.

Nel 1838 il Dr. Shearjashub Spooner scriveva: “Non credo sia il caso di dubitare ancora che le malattie dei denti siano in grado di causare dei disturbi fisici a distanza e possano contribuire allo sviluppo di malattie sistemiche croniche.” E citava oltre alle sue osservazioni personali una quarantina di esempi di simili guarigioni pubblicati da Leonard Koecker in “Grundsätze der Zahn-Chirurgie” (Weimar, 1828). Fu proprio negli anni seguenti che ci fu lo scisma ufficiale e definitivo tra medicina e odontoiatria. Nel 1851 il prof. Thomas Bond, dell’Università di Baltimora, era protagonista di un ulteriore tentativo di ricucire la disattenzione crescente dei medici su questo argomento invitandoli a “non sottovalutare la patologia dentale come causa di difficoltà organiche a distanza, come invece sta accadendo oggi che facciano i più.” Per quanto in questo periodo ci siano ancora molti autori interessati a questo tema, significativo è il seguente passaggio di Samuel Fitch, autore di “System of Dental Surgery” (1827): “Voi mi direte, com’è possibile che la correlazione tra patologie dentali e malattie sistemiche, se è vera, sfugga all’attenzione della più parte dei medici? Ebbene dovete sapere che gli insegnamenti sui denti da alcuni decenni sono stati tolti dal curriculum formativo dei medici, dopodiché questi generalmente non hanno la curiosità di valutare l’argomento in relazione alle malattie che sono già impegnati a curare con un folto arsenale di sostanze”. Fitch raccolse un’ampia casistica sulle infezioni dentali come fattore decisivo nello sviluppo della tubercolosi. Bisogna sottolineare che a quei tempi molte patologie polmonari diverse venivano classificate, per scarsità di mezzi diagnostici, come tubercolosi: anche Leyden (1867), Fuller (1881), Jaffe (1886) e Israel (1886) segnalarono diversi casi di “tubercolosi polmonare” che guarivano in seguito all’estrazione di denti compromessi. Ungar (1884) segnalò la correlazione tra l’estrazione di un dente cariato ascessuato e un sorprendente recupero delle condizioni di salute di paziente “con tubercolosi”. Il Dr. Gater (1801) oltreoceano quotava nel 1801 due casi di guarigione, uno da consunzione ed un altro da vertigine, entrambi che duravano già da parecchi anni, con l’estrazione semplicemente di di alcuni elementi dentari.

Nel 1848 si distinse per delle segnalazioni nello stesso ambito il Dr. Mayo Smith: “Molti pazienti vittime di consunzione polmonare pagano delle fortune per curarsi, per fare lunghi soggiorni termali oppure per viaggiare magari in assolate isole del mediterraneo. E però queste ed altre spese mediche al più rallentano solo leggerissimamente la progressione della malattia senza fermarla. D’altro canto le mie osservazione cliniche mi dicono che la maggior parte di questi pazienti avrebbero semplicemente bisogno di essere inviati da un bravo dentista per estrarre i denti compromessi che stanno contribuendo alle loro sofferenze, alle loro spese mediche e in pratica ad una loro morte prematura.”

Nel 1910 l’internista inglese William Hunter gettò le basi della “teoria focale“ (“The role of sepsis and antisepsis in medicine”) e nel 1920 il batteriologo americano Rosenow riuscì a riprodurre alcune malattie focali (poliartriti e glomerulonefriti) su animali da laboratorio tramite l’inoculazione di patogeni provenienti da siti orali infetti (“teoria tossinfettiva”). Nel 1937 e nel 1950 si svilupparono la “teoria allergica” di Berger e la “teoria neurdistrofica” di Speransky.

L’ indicazione alla terapia estrattiva dentale per motivazioni sistemiche decadde negli anni 40-50 con l’avvento della terapia antibiotica, ma numerose ricerche negli ultimi vent’anni continuano a correlare i foci settici del cavo orale e in particolare la malattia parodontale alle patologie sistemiche renali, cardiache, neurologiche e autoimmuni. Viceversa, numerose patologie sistemiche sono correlate ad un aumento dell’incidenza della malattia parodontale, ad indicare che un approccio “olistico” delle patologie infettive/infiammatorie sia in senso terapeutico che preventivo è assolutamente necessario, anche in considerazione del fatto che in funzione dell’abuso delle terapie antibiotiche alcune patologie stanno ritornando di estrema attualità.

È inoltre ormai noto e riconosciuto che il meccanismo della cascata infiammatoria e della risposta immunitaria non è solo ed esclusivamente sito-specifico, ma espleta i suoi effetti anche in senso sistemico: forse dovremmo riprendere in considerazione di ritornare alla “radice” (nel vero senso della parola) della medicina odontoiatrica?

 

A cura di: Dott.ssa Alessandra Carrera – Odontoiatra